di Sergio Paolo Bonanni
Al centro il sacerdozio di Cristo
e la carità vissuta guardando la fragilità dell’ “altro”.
Storia di una donna cresciuta nell’Ac di una parrocchia romana, oggi venerabile, esempio di virtù e di sapienza evangeliche
Cosa c’è alla radice di una vita vissuta nella totale dedizione a Cristo? Nelle documentate e appassionate pagine del suo libro sulla figura di Maria Bordoni, Nicola Ciola ci aiuta a riscoprire che solo la grazia può donare la forza di amare senza riserve, raccontandoci una storia di donne e di uomini capaci di testimoniare la grandezza dell’opera di Dio (Al centro il sacerdozio di Cristo. La spiritualità della Venerabile Maria Bordoni e i suoi riflessi nella teologia di Marcello Bordoni, Assisi 2020).
Si tratta di una storia che è anche una storia di AC, perché comincia in una parrocchia di Roma in cui è presente l’associazione: Sant’Eusebio a piazza Vittorio. È questa la comunità che la quindicenne Maria comincia a frequentare dal 1931. In quegli anni, piazza Vittorio è una porta di accesso alla città per tutta l’enorme periferia romana che cresceva in modo impressionante e dove, durante la seconda guerra mondiale, furono accolti moltissimi rifugiati nei palazzi della Roma umbertina.
La Chiesa in cui la giovane Bordoni si fa le ossa, è davvero un ospedale da campo. E Maria, in questo ospedale da campo che è la sua parrocchia, impara fondamentalmente due cose. La prima: per curare le ferite non si può restare in superficie, ma bisogna andare in profondità. La seconda: nessuno deve illudersi di poter aiutare l’altro a guarire, se non vince la paura delle ferite che può ricevere lui; ma questo è possibile solo a chi è davvero convinto che, in Gesù risorto, la morte è stata già superata dall’amore. Scriverà la Bordoni in una pagina del suo Diario spirituale (20 maggio 1941): «Avevo nel mio cuore molte pene non mie, ma che pure però sentivo mie: il pensiero delle anime in peccato, dei soldati, dei malati, dei poveri, della mia famiglia… Non è più possibile pensare a noi stessi, ai nostri dolori, a tante piccole cose; ci sono pensieri, preoccupazioni, molto più grandi che assorbono tutti i nostri nulla».
Decisivo, per Maria, l’incontro con l’AC, voluta a Sant’Eusebio da Don Domenico Dottarelli. Fu questo lungimirante parroco romano ad accompagnare Maria nel discernimento delle strade da percorrere, affinché la sua esperienza di Dio potesse diventare un bene capace di portare frutto anche per gli altri. Don Domenico vedeva nei laici della sua parrocchia persone chiamate ad esprimere con crescente intensità il dono del loro battesimo: dunque non attori passivi, ma protagonisti della vita pastorale della comunità, in spirito di generosa e creativa collaborazione con i ministri ordinati. Non sorprende, dunque, il suo impegno nella promozione del gruppo che riuniva le donne di AC: che le Fortes in fide, così erano chiamate, fossero presenti a Sant’Eusebio fin dagli anni trenta, è attestato da un foglio stampato e inviato a scadenze regolari alle iscritte con lo scopo di invitarle a rimanere fedeli agli impegni del gruppo. Le adunanze, le istruzione catechistiche, i ritiri a cui Maria cominciò a partecipare con lo slancio e la serietà che la distinguevano, segnarono i passi della sua maturazione umana e cristiana: è durante gli esercizi spirituali del settembre 1937, che questa giovane di AC giunge ad esprimere il suo desiderio di vivere i voti di povertà, castità e obbedienza.
Le radici associative
Le radici associative della sua spiritualità avranno un influsso permanente su tutta la vicenda personale ed ecclesiale di Maria. Insieme a Don Domenico, la Bordoni avanza con decisione lungo la strada che li condurrà a fondare, nel 1948, l’Opera Mater Dei. Il germe del nuovo istituto religioso è un piccolo gruppo di donne che scelgono di consacrarsi alla Vergine, l’ancella del Signore, per essere a loro volta «collaboratrici fedeli, silenziose, umili, dell’apostolato gerarchico della Chiesa». Nella neonata famiglia religiosa, Maria assume il ruolo guida di Sorella Maggiore. Sarà lei ad alimentare per prima il carisma condiviso dalle consacrate dell’Opera. Dalla fonte di una spiritualità centrata sul sacerdozio di Gesù, la Bordoni trae l’ispirazione necessaria a dare al proprio sacerdozio battesimale lo spessore di un’esistenza vissuta come totale offerta di sé: la charitas Christi la spinge a sostenere con efficace solidarietà i pastori impegnati nella cura delle loro comunità, così come la rende instancabile nell’accogliere quei poveri e quei piccoli che il Figlio di Dio, facendosi uno di loro, rivela essere i primi destinatari del Regno.
Le tante e straordinarie testimonianze di cui è fatto il racconto della vita di Maria Bordoni parlano di una preghiera e di un’azione capaci di incidere profondamente nella coscienza e nell’esperienza concreta di quanti ebbero la fortuna di incontrarla. Ma la vicenda familiare ha destinato questa mistica romana del novecento ad esercitare un influsso particolare anche sui percorsi dell’intelligenza credente: nell’opera del fratello Marcello, prete romano e figura di spicco della teologia italiana postconciliare, è evidente e diffuso il riverbero speculativo del ‘cristocentrismo vissuto’ che plasma tutta la sua esistenza. È Marcello, con la sensibilità che nasce dagli affetti più cari e la lucidità dell’intellettuale, ad evidenziare che la partecipazione della sorella all’opera della salvezza, ha i tratti di una «maternità spirituale» tutta «ordinata ad una continua nascita di Cristo nel mondo delle anime, attraverso l’azione dello Spirito, nell’ascolto della Parola, […e] nella docile obbedienza alla volontà di Dio nella vita quotidiana».
La fedeltà al quotidiano, la prassi di una carità lontana dalla luce dei riflettori, la perseveranza nella preghiera, sono, per la Bordoni, i primi luoghi di verifica della capacità di rimanere, da autentica discepola, fortis in fide nelle alterne vicende della storia. Scrive nell’agosto del ’52 al sacerdote e letterato Don Giuseppe Luca, con cui intrattenne un intenso scambio epistolare: «è tanto necessario tornare ad agire in profondità, perché vengano sanate le radici e domani finalmente questa società cristiana, divenuta piuttosto leggera e guasta, torni a lodare Dio con la fede che animava i primi seguaci di Gesù. […] Io sono convinta che Gesù voglia i cristiani veramente cristiani, perché poi tutte le questioni siano giustamente e solidamente risolte. Chi lavora con pazienza e perseveranza in profondità mette le nuove radici, e farà perciò molto per il Regno di Gesù, anche se tutto rimarrà nell’ombra». Parole che sorprendono per la loro capacità di riflettere la gioia di un servizio sempre pronto a tradursi nell’attenzione perseverante e responsabile alle persone e alla loro storia, che è il segno distintivo della presenza ecclesiale dell’AC.
Versione ampliata dell’articolo apparso su Segno nel mondo n 4/2021 pag 36.