La Giac e le periferie. L’esperienza di un’associazione in uscita.

di Gloriana Alessandra

Nei primi anni ’50, a guerra terminata, le ferite inferte dal conflitto a Roma si facevano ancora sentire, in particolare in alcune zone dove erano evidenti sacche di povertà di ogni genere e di profondo disagio. In queste realtà la Giac scelse di porre attenzione ai minori, in un’ottica di prevenzione e attenzione al territorio. Scelse, cioè, di occuparsi dei minori che vivevano in quartieri difficili, quali Torpignattara, Centocelle, Primavalle, Tiburtino III e Quarticciolo, fino a spingersi anche in realtà ancora più periferiche, qualificate come Agro romano. Alcune di esse (Giardinetti, Aguzzano, Villa Spada) sono oggi inserite nel tessuto urbano, sia pure tuttora periferico, mentre altre (Castel Romano, Trigoria) sono ancora piuttosto distanti dalla città, e dunque ben più difficili da raggiungere all’epoca. Fu indubbiamente un’attenzione per i minori e le loro famiglie, ma anche, di conseguenza, per il territorio in cui vivevano. 

Fondo GIAC, Busta 32, fascicolo 2. Archivio della Presidenza diocesana di Roma – Azione Cattolica Italiana.

Si trattò di una cura certo materiale e immediata (cibo, vestiario, sostegno economico), ma allo stesso tempo immateriale e prospettica, attenta alla costruzione di reti di relazioni, allo sviluppo di una maturazione a tutto tondo dei ragazzi, al recupero scolastico, particolarmente importante in zone in cui l’abbandono scolastico era (e forse è ancora oggi) notevolissimo. Si crearono dunque delle vere e proprie “scuole di periferia”. In questo modo si mirava, e spesso si riusciva, a promuovere un riscatto sociale e umano. 

L’impegno della Giac fu davvero importante. Ben 400 giovani vi si dedicarono quotidianamente con passione, occupandosi di 15.000 ragazzi dai 6 ai 15 anni attraverso “un’opera, come scriveva l’allora Presidente diocesano Fusacchia, di assistenza morale, didattica e materiale, svolta senza distinzione di colore e di tendenza” da parte di giovani “che si prodigano nel portare cibo e conforto”. Fu un impegno importante anche dal punto di vista economico (reperimento di benzina, per recarsi nelle periferie, e acquisto di materiale scolastico, che non si poteva richiedere alle famiglie dei ragazzi). Fu un fundraising ante litteram, con richieste a soci, ad “amici”, cioè ex-Giac che avevano assunto ruoli sociali importanti, a enti pubblici, banche, Ufficio assistenza del Vaticano. In questo modo i soci vennero coinvolti e resi consapevoli e si dovette effettuare una precisa rendicontazione. Un’attività che poteva sembrare banale diventò così anche fonte di autoformazione. 

Gioventù romana anno 1, n.2 (Fondo GIAC, Busta 29, fascicolo 8, Archivio della Presidenza diocesana di Roma – Azione Cattolica Italiana)
Fondo GIAC, Busta 32, fascicolo 2. Archivio della Presidenza diocesana di Roma – Azione Cattolica Italiana.

E non si trattava di un’attività estemporanea. Si creò infatti un’apposita commissione diocesana periferie/Agro romano, che programmava, verificava, faceva riferimento al Consiglio diocesano, cui relazionava in modo regolare. Il Consiglio diocesano, a sua volta, riferiva alla Presidenza centrale, specificando che l’intento era quello di realizzare “l’apostolato nei ceti più disagiati, nelle borgate e negli ambienti più abbandonati” (relazione della Presidenza diocesana a quella centrale, 1950-1951). Fu tutta l’associazione, così, a essere coinvolta in questo impegno e a sentirsene garante e responsabile. 

A margine, infine, non vanno dimenticati gli incontri di zona dei lavoratori realizzati nelle periferie nel 1950-1951, le donazioni di arredi alle chiese delle periferie e dell’Agro romano e l’assistenza religiosa in quelle realtà, supportate anche da Unione uomini, che continuarono fino all’unificazione dei “rami”. 

Fu un’attività spesso difficile e complessa, ma si trattò di una bella e interessante esperienza, il cui significato può essere condensato in quanto scritto in “Gioventù”, la rivista Giac, che così sollecitava i giovani all’impegno in un articolo corredato della foto di un bambino con la penna in mano: “Se pure è bello essere vicini alla parrocchia e ritrovarsi con gli amici nelle sale dell’associazione”, bisogna porsi accanto alle “miserie delle borgate periferiche e alle lontane zone dell’Agro romano”. Fu, cioè, l’esperienza di un’associazione che si pose davvero, come diremmo oggi, “in uscita”, recandosi là dove si avvertiva maggiormente bisogno di cura, attenzione e umanità.