Voci dal confine moldavo

IL RACCONTO DEL VIAGGIO TRA I PROFUGHI UCRAINI DI MONS. BENONI AMBARUS

Abbiamo chiesto al nostro vescovo di raccontarci come le diocesi al confine con l’Ucraina stanno vivendo questi giorni drammatici, nell’accoglienza dei fratelli in fuga.

Chișinău – Moldavia

“Siamo arrivati nella Repubblica Moldova venerdì 11 marzo, e abbiamo incontrato il vescovo della capitale Chișinău, Anton Coşa, insieme al direttore della Caritas e al vicario generale. Insieme abbiamo fatto visita ai centri di accoglienza dei profughi. Il primo era il centro MoldExpo, nel comune di Chișinău che ha organizzato un posto di prima accoglienza delle persone ucraine. I rifugiati arrivano lì alla spicciolata, dopo lunghe ore di viaggio, a piedi. Alcuni hanno viaggiato anche venti ore, rimangono lì due tre giorni, fino a quando gli si apre una prospettiva di futuro. Perché il dramma adesso è proprio questo. Ci dicevano che finché non capiscono dove andare, dove proseguire il viaggio, restano sospesi. Da questo punto di vista mi ha molto colpito ascoltare alcune storie. In questo primo centro, la vicesindaca che ci ha accompagnato ci diceva che finora sono passate più di 14mila persone dall’inizio del conflitto. La stragrande maggioranza sono donne, bambini, anziani. Le donne spesso sono le mamme e le nonne degli stessi bimbi. È fondamentale il personale di supporto psicologico, perché spesso gli adulti sono così traumatizzati che fanno fatica a seguire i bambini. Questa cosa mi ha toccato molto.

L’altro centro è quello gestito dai Salesiani. Anche lì le persone teoricamente restano pochi giorni, poi partono per la Francia, la Spagna, la Germania. Ho parlato con giovani donne, alcune mamme, altre sole, che avevano lasciato mariti e compagni al fronte. Dovevate vedere i loro volti. Mi colpiva molto anche la vitalità e la semplicità dei luoghi. L’oratorio di don Bosco è diventato una sala di accoglienza, con materassi per terra. Chiunque arriva può entrare, farsi una doccia calda, riposarsi, mangiare qualcosa. Un piccolo spazio, sì, ma segno di una Chiesa locale che, per quanto semplice in una piccola diocesi, si è messa completamente a disposizione. Si accolgono centinaia e centinaia di persone, perché è un flusso continuo. Questo mi consola, e spero che anche noi saremo pronti a fare altrettanto in Italia, nelle nostre diocesi. Sarà importante costruire una fisarmonica familiare, che si allarga e si stringe a seconda del numero di persone che arrivano, per riscaldarsi a vicenda.

A un certo punto ho notato una mamma ucraina che non finiva di ringraziare gli operatori del centro. Il suo bimbo, infatti, aveva perso il solo giocattolo che era riuscito a portarsi via da casa nella fuga. Era disperato. I giovani allora si erano dati da fare, cercando ovunque nel centro finché non lo hanno ritrovato. La mamma diceva che il bimbo era felicissimo per avere riavuto indietro il suo unico gioco. Queste cose toccano nel profondo, perché rivelano il volto umano e semplice dei bimbi, per i quali anche aver perso un piccolo giocattolo è un grande trauma. Immaginate una guerra”.

Siret – Romania

“Siamo stati poi anche Siret, nel nord della Romania, proprio al confine con l’Ucraina. La tragedia della guerra è negli occhi delle persone che scappano perfino in ciabatte. Molti si illudono che dopo poco tempo potranno tornare a casa. Invece presto realizzano che la guerra ha già inghiottito la loro casa, e ha già messo sottosopra la loro esistenza. Ho incontrato al confine una famiglia dove c’erano tre bimbi. Un ragazzino portava in braccio la sua tastiera, mentre l’altro di quindici o sedici anni teneva in spalla la sua chitarra acustica e una cassa. Avevano lo sguardo perso. Erano l’immagine di un vita piena di passioni e desideri, ma sospesa come una fune nel vuoto. Mi sembravano così questi ragazzi. Il direttore della Caritas di Iași, una città rumena accanto al confine moldavo, mi ha spiegato che il dramma per i profughi che arrivano è capire cosa fare della propria vita da quel momento in poi.

Nel centro di accoglienza della zona ho parlato con una anziana signora, che era scappata in Romania con la figlia e i suoi quattro nipoti. Erano lì già da tre giorni, nonostante le persone restino normalmente in quei luoghi un giorno e poi ripartano verso l’occidente. Quella famiglia non sapeva dove andare. “Dovevamo andare in Portogallo,- mi ha detto la nonna, – ma si è bloccato tutto. Adesso stiamo aspettando una risposta dalla Germania, dove abbiamo un vecchio parente”. Allora l’ho invitata in Italia, e lei mi ha risposto che ci penserà se anche in Germania dovesse essere complicato andare. Quando mi sono alzato, l’ho vista andarsi a sedere sul suo letto e coprirsi con una grande coperta. Poi ha iniziato a piangere forte. Quel nostro dialogo aveva risvegliato di nuovo il suo dolore, aveva toccato il dramma.

Adesso tocca a noi e dobbiamo essere pronti a fare due cose. La prima è l’accoglienza diffusa, perché qui parliamo di donne, bambini, anziani, persone fragili. Bisogna ospitarli nelle famiglie, nelle parrocchie, negli istituti religiosi, e in piccoli nuclei, per accelerare l’integrazione. Questo richiederà davvero tanta disponibilità da parte nostra. Anche il sostegno scolastico ai bambini, sarà fondamentale. La seconda pista, appena taceranno le armi, sarà gemellare le nostre diocesi, le chiese, le parrocchie con quelle ucraine”.

*Mons. Benoni Ambarus, vescovo ausiliare per la Diocesi di Roma, con delega per la carità e i migranti

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